Verso fuori.

Categoria: Fisica Pagina 3 di 8

Quanto è distante l’orizzonte?

Vi è mai capitato di seguire con lo sguardo un aeroplano, per qualche minuto? Se l’avete fatto, vi sarete certamente accorti che sembra andare fortissimo quando è proprio sopra la testa, per rallentare poi man mano che si allontana, abbassandosi verso l’orizzonte.

Ma una volta giunto all’orizzonte che accadrà? Di sicuro non si abbatterà al suolo, come l’occhio sembrerebbe suggerire: se l’aereo non è partito da poco, la sua quota sarà più o meno fissa, sui 10 km. Ma se sta ancora volando, sopra a cosa starà volando? Quanto distante sarà?

E se invece di guardare aerei salissimo noi, per quanto possibile, verso il cielo? Se dalla cima di una montagna con una buona visuale, da un picco isolato, da una svettante torre guardassimo lontano, fino a dove si spingerebbe il nostro sguardo? In altre parole, quando è lontano l’orizzonte?

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La Terra dallo Spazio – Samantha Cristoforetti

La distanza dall’orizzonte non è un concetto metafisico e sebbene possieda una certa forza evocativa è una quantità fisica precisa. Già gli antichi sapevano che oltre una certa distanza non si vede più niente e che ciò ha poco a vedere con la presenza di nebbie e foschie. Il motivo per cui esiste la linea dell’orizzonte è un altro: la Terra è rotonda.

Sappiamo tutti che le persone che vivono nell’emisfero australe sono capovolte, rispetto a come siamo noi. Naturalmente non hanno la testa in basso: il loro basso è il nostro alto, ecco tutto. Mi viene in mente una striscia di Mafalda, nella quale la bambina argentina appende il suo mappamondo al contrario perché sennò “le cadono le idee dalla testa”…

Anche quando un oggetto, allontanandosi da noi, si sposta sulla superficie terrestre il suo basso cambia rispetto a quello del punto dov’era partito: in altre parole la sua verticale e la nostra iniziano a essere diverse, a formare tra loro un piccolo angolo. Ma così come non possiamo vedere i nostri ribaltati amici neozelandesi, ad un certo punto il nostro sguardo non potrà più scorgere l’oggetto: sarà la Terra stessa, con la sua forma più o meno sferica, a nascondercelo.

Orizzonte - schema angoliMa quanto è lontano questo punto, oltre il quale la Terra si nasconde da sola? Il senso comune dice che dipenderà da quanto alti si è: non lo sanno forse tutti che per vedere lontano bisogna salire in alto? La matematica necessaria per trovare la formula corretta è piuttosto semplice, basta solo un po’ di trigonometria. O filosofi e poeti che avete letto sin’ora e che siete assaliti da un cupo timore, se non da un corrucciato fastidio, abbiate la tempra di proseguire! La conoscenza non distrugge il sentimento!

L’angolo che nel disegno è chiamato \textstyle o è l’angolo massimo oltre il quale uno che guarda dalla cima dell’altezza \textstyle h non vedrà più niente. Le linee che congiungono la cima di \textstyle h agli ultimi due punti visibili sulla superficie sono segmenti di rette tangenti alla circonferenza; non è difficile rendersene conto: una retta può intersecare un cerchio in un punto, in due, oppure in nessuno. Se la retta che passa per \textstyle h interseca due punti, il più vicino è visibile ma ci nasconde il secondo, che quindi è invisibile: guardando per terra vediamo il suolo, ma non l’Oceano Pacifico che ci sta sotto. Se non ne interseca nessuno allora stiamo guardando per aria. L’ultima direzione alla quale corrisponde un punto visibile si ha allora quando la retta interseca la circonferenza in un solo punto, e una tal retta è una tangente.

Le tangenti alla circonferenza sono sempre perpendicolari al raggio, nel punto in cui la toccano. Quindi il triangolo formato dal raggio della Terra fino al punto di tangenza, dal segmento \textstyle R+h e dal segmento che congiunge l’estremo di h al punto di tangenza è rettangolo.

Ma allora si può usare un po’ di sana trigonometria per determinare l’angolo \textstyle o, la cui misura in radianti, moltiplicata per il raggio terrestre R, darà la lunghezza dell’arco di circonferenza tra \textstyle h e il punto di tangenza, ovvero la distanza dell’orizzonte. Se non avete chiuso i vostri libri di matematica in un polveroso scatolone da almeno due secoli, dovrebbe risultarvi chiaro che:

\displaystyle \cos o\,=\,\frac{R}{R+h}

\displaystyle o\,=\,{\rm arccos} \left( \frac{R}{R+h} \right)

\displaystyle d_{or.}\,=\,R\cdot {\rm arccos} \left( \frac{R}{R+h} \right)

Bene, ecco trovata la formula che stavamo cercando. Ma serve veramente a qualcosa? Conosco un paio di persone che sanno a memoria valori sparsi della funzione trascendente arcocoseno, ma calcolarla a mente richiede un po’ di conti noiosi. Meglio fare un’approssimazione e accontentarci di una formula inesatta, che compie qualche errore, ma è più semplice da maneggiare. Del resto, a chi importa se una nave invece di essere distante 10 km, è distante 10 km e 2 cm??

Devo confessarvi che non ricordo mai lo sviluppo in serie di potenze della funzione arcocoseno. Potrei sempre ricavarlo, ma lasciatemi seguire una strada meno irta di derivate: tanto sono certo che un giorno pagherò cara anche questa. Ripartiamo dalla prima equazione, quella in cui è presente il coseno di \textstyle o. Del coseno mi ricordo lo sviluppo!

\displaystyle \cos x\,=\,1-\frac{x^2}{2}+O(x^4)

Del resto anche il membro di destra può essere rimaneggiato, in modo da essere scritto:

\displaystyle \frac{R}{R+h}\,=\,\frac{1}{1+\frac{h}{R}}

Ma posso sviluppare anche questo:

\displaystyle \frac{1}{1+x}\,=\,1-x+O(x^2)

Siccome il raggio della Terra è 6373 km, ogni altezza terrestre (e anche qualche altezza spaziale) è piccola rispetto ad esso. Mi arresto, dunque, al primo termine non costante degli sviluppi, e riscrivo l’equazione in forma approssimata:

\displaystyle 1-2o^2\,=\,1-\frac{h}{R}

\displaystyle o^2\,=\,\frac{2h}{R}

\displaystyle o\,=\,\sqrt{\frac{2h}{R}}

Ma la distanza sulla superficie, cioè la lunghezza dell’arco di circonferenza, è \textstyle R volte l’angolo \textstyle o

\displaystyle d_{or.}\,=\,R\cdot o\,=\,R\sqrt{\frac{2h}{R}}\,=\,\sqrt{2Rh}\,=\,\sqrt{Dh}

\displaystyle d_{or.}\,=\,\sqrt{Dh}

Ecco fatto: la distanza dell’orizzonte è, in prima approssimazione, la radice del prodotto tra il diametro terrestre \textstyle D\,\simeq\,12746\,{\rm km} e l’altezza da cui si guarda, ovvero, se qualcuno si ricorda ancora cos’è, la loro media geometrica. Una radice quadrata è più semplice da calcolare di un arcocoseno, ed ecco la più immediata utilità della formula approssimata.

Del resto, che approssimata lo sia appare chiaro se si considera il suo limite superiore: se uno andasse a una distanza grandissima dalla Terra, per la formula dovrebbe vederne una parte sempre più grande man mano che si sposta. Invece non è così: per quanto uno possa allontanarsi, non vedrà mai più di un emisfero contemporaneamente e il “retro” resterà sempre nascosto, proprio come della Luna non potremo mai vedere l’altra faccia, a meno di non girarle attorno.

Ma qual è l’errore che si fa quando si usa la formula? Ecco una tabellina con dei valori di altezze e di distanze degli orizzonti, per fare qualche confronto:

Chi/Cosa h d (radice) d (arccos)
Naufrago in mezzo all’oceano 2 cm 509 m 509 m
Formica in cima a un filo d’erba 10 cm 1,13 km 1,13 km
Giovanni nella prateria 1,7 m 4,65 km 4,65 km
In cima all’albero di un veliero 20 m 15,97 km 15,97 km
Campanile di San Marco 100 m 35,7 km 35,7 km
Monte Priaforà 1659 m 145,41 km 145,40 km
Monte Everest 8848 m 335,82 km 335,63 km
Aereo di linea 10 km 357,0 km 356,8 km
Stazione spaziale 400 km 2258 km 2201 km
Luna 384400 km 70000 km 9907 km

L’errore massimo (per uno che guarda dalla stazione spaziale) è circa del 2,5%! La formula approssimata è molto conveniente. Amenoché non si tenti di usarla per sapere come vede la Terra la quieta Luna. In questo caso la “quota” dalla superficie non è più piccola rispetto al raggio terrestre e l’approssimazione cade: la formula semplice fornisce un risultato assurdo, maggiore della circonferenza del pianeta, mentre quella con l’intera funzione arcocoseno dà un valore corretto, che si avvicina a \textstyle \frac{\pi}{2}\cdot D\,\simeq\,\frac{\pi}{2}\cdot 12746\,~{\rm km}=\,10010~{\rm km}, un quarto di circonferenza terrestre.

Da Capri, verso Sud

E voi, cosa aspettare a salire in alto per guardare lontano?

Arcobaleno

Oggi ho potuto assistere ad uno splendido arcobaleno proprio dietro casa. Il fenomeno non è raro, ma è decisamente fuori stagione, perché di solito capitano frequentemente nel periodo compreso tra agosto e fine ottobre (lo stesso dei temporali). I cambiamenti climatici sono però ormai un dato di fatto, bisogna voler essere ciechi per non accorgersene: vent’anni fa, quand’ero bambino, nel fondovalle (300 m s.l.m.) nevicava ogni anno, anche se non abbondantemente, e la neve restava qualche settimana. Si è progressivamente ridotta a partire dagli anni 2000; quest’anno non solo non se n’è vista manco l’ombra, ma la temperatura non è mai scesa sotto zero!

Arcobaleno del 27.02.2014 - Proiezione stereograficaTorniamo all’arcobaleno. Avete mai notato che per descrivere bene il fenomeno occorrono almeno quattro lingue? In Italiano si dice “Arcobaleno”, cioè un arco che è un baleno, qualcosa che compare e scompare repentinamente. In Portoghese e Spagnolo di dice “Arco-iris”, un arco con i colori dell’iride. In Francese “Arc-en-ciel”, l’arco che sta in cielo. Infine in tedesco è “Regenbogen”, l’arco di pioggia. Solo con la cittadinanza europea si riesce a mettere tutto insieme!

Qui sopra c’è una panoramica dell’arco primario, quello che si vede normalmente. Grazie alla posizione favorevole della pioggia e di un varco nelle nuvole, le gocce ancora fitte sono state investite dalla luce solare praticamente diretta, determinando dei colori molto nitidi e intensi; si è reso così possibile vedere ben quattro ordini di duplicazione delle bande di colore verde, azzurro, indaco e viola, un fenomeno dovuto alla natura ondulatoria della luce e ai conseguenti effetti d’interferenza. La foto sopra è stata realizzata a partire da cinque pose minori, scattate con una piccola fotografica compatta, e unite con il programma Hugin. Ne ho realizzato anche una seconda versione, che ha un campo inquadrato più grande; dato che non sono riuscito a decidermi su quale sia la migliore, includo anche questa.

Arcobaleno del 27.02.2014 - Proiezione rettilineaNelle foto soprastanti, nei punti dove l’arcobaleno termina si vede bene che esso continua anche davanti agli alberi che nascondono lo sfondo, con intensità minore. Questo fatto è significativo, perché spesso si sentono fare domande del tipo “Ma se vado vicino all’arcobaleno, cosa si vede?” oppure “Quanto distante è?”. Ebbene, con un po’ di dispiacere debbo dirvi che queste domande non hanno alcun senso: l’arcobaleno è un fenomeno puramente ottico, non è certo un oggetto che si può toccare, ma non si può nemmeno dire che è in un posto o in un altro. In altri termini, se io fossi corso fino all’angolo in fondo al campo dove l’arcobaleno sembra finire avrei solo potuto, se fortunato, vedere un altro arcobaleno ancora più in là. L’arcobaleno si forma quando le gocce d’acqua in sospensione in aria disperdono la luce solare, poco importa se sono lontane centinaia di metri o se, spruzzate con un nebulizzatore, a pochi centimetri. Più che esserci un unico arco ad una ben precisa distanza, si può meglio dire che c’è un cono (con un apertura di circa 42°) del quale l’osservatore vede una sezione, come nel disegno che ho fatto qui sotto.

Disegno Arcobaleno

L’occhio vede un solo arco, ma le gocce che disperdono la luce producendo l’arcobaleno possono essere a diverse distanze dall’osservatore, legate alla presenza di ostacoli, a quanto fitta è la pioggia nei vari punti, al modo in cui vengono proiettate la luce del Sole e le ombre delle nubi.

Come spesso accade, anche questa volta è apparso un secondo arcobaleno, a breve distanza dal primario. Ciò accade perché quando la luce entra nelle gocce d’acqua (che sono sferiche) e le attraversa disperdendosi, solo una parte esce dalla goccia al caratteristico angolo di 42° rispetto alla direzione antisolare. La frazione rimanente va incontro ad una ulteriore riflessione prima di uscire ad un angolo diverso, di circa 52°; le gocce che, rispetto all’osservatore, si trovano a quell’angolo, disperdono la poca luce che non è già fuoriuscita verso chi le guarda, generando il tenue (ma neanche tanto!) arco secondario. Ma non è tutto! In condizioni ottimali dovrebbe essere possibile osservare anche altre riflessioni, che sono però tanto deboli da non essere quasi mai visibili.

Concludo con una galleria di immagini che colgono gli aspetti che ho sin’ora elencato, solo una piccola parte di quelli coinvolti; come il fatto che il cielo tra i due arcobaleni è più scuro, o che durante alcune ore del giorno gli arcobaleni non possono fisicamente apparire. Dietro un fenomeno metereologico così familiare, e sempre bello, si nasconde una quantità enorme di interessanti fatti scientifici. L’arcobaleno ha anche il merito di essere forse l’unica occasione nella quale le persone comuni scrutano per un attimo il cielo, sempre visto come qualcosa “a prescindere” e mai indagato. Il laboratorio più grande del mondo non è a Ginevra o sotto il Gran Sasso, ma è l’Universo stesso, che tutti possono guardare. Basta volerlo.

Tesi triennale

È passato un po’ di tempo da settembre scorso e, quindi, c’è bisogno di un piccolo aggiornamento. Come avevo annunciato, mi sono laureato in Fisica e sto ora proseguendo il mio percorso, sempre a Padova, con la laurea magistrale (gli ultimi due anni).

Tesi Triennale

Lo so, lo so già cosa pensate! Non potevi trovare un titolo più corto di “Studio dello spettro VHE della sorgente PKS 1424+240 ed implicazioni sulla propagazione dei raggi gamma da distanze cosmologiche”?! A dire il vero non ci ho neanche pensato; si vede che ero troppo assorto a fare i grafici. L’immagine è un collegamento al pdf originale, se volete darci un occhiata.

In sostanza, ho studiato una lontanissima galassia; tanto lontana, che la sua luce ha impiegato 6 miliardi di anni per giungere fin qui da noi (e ciò significa, a pensarci bene, che quando è partita non esisteva neppure il Sole). Questa galassia irradia due getti di particelle a velocità prossime a quella della luce dalle sue regioni centrali, dove dovrebbe esserci un grosso buco nero. In questi getti sono presenti anche dei fotoni ad alta energia (raggi X) che, a forza di essere colpiti dalle particelle energetiche, acquistano energia, un po’ come se fossero delle biglie (si chiama “effetto Compton Inverso”). Ne ricevono così tanta che entrano nella regione gamma dello spettro elettromagnetico, la porzione più energetica e penetrante.

Questi getti (e la luce che è in essi) hanno una direzione molto ben collimata; il fatto è che nel caso di PKS 1424+240 essa punta casualmente proprio in direzione della Terra! Niente paura, non c’è pericolo di essere abbrustoliti dalle radiazioni gamma, di oggetti simili ne esistono centinaia e vengono chiamati “blazar”. Giunge sul nostro pianeta una quantità minima di radiazione che, anche se molto energetica, viene assorbita dall’atmosfera.

Infatti quando questi fotoni si ritrovano nelle vicinanze di una molecola d’aria e ne vengono perturbati, la loro energia è tale che si generano delle particelle di materia (elettroni e positroni) a scapito della quantità di moto del fotone (c’è un vecchio post qui, scritto prima che entrassi all’Università, che parla di come ciò accada). Queste particelle sono a loro volta ancora molto energetiche e così ne generano altre e altre ancora, in un processo a cascata. Arriva il bello: molti di questi elettroni si muovono a velocità prossime a quelle della luce nel vuoto c, che, finora, si è sempre dimostrato essere un limite insuperabile. La velocità della luce nell’aria, però, è più piccola della velocità della luce nel vuoto, in ragione di un fattore che si chiama “indice di rifrazione”. Nella vita comune, proprio la differenza tra gli indici di rifrazione dell’aria e di altri materiali consente alle lenti di ingrandimento di funzionare, ai prismi di scomporre la luce, alle gocce d’acqua di generare arcobaleni. La velocità della luce in un mezzo materiale non ha nulla di speciale rispetto alle altre velocità possibili e può benissimo essere superata.

Il fenomeno che si presenta è simile al boato che producono gli aerei supersonici. In questo caso quello che si vede è un bagliore di luce azzurra, la luce Čerenkov (e il fenomeno il atto si chiama, con molta arguzia, “Effetto Čerenkov”). È osservando questi baleni azzurri nel cielo notturno con telescopi enormi che si riesce a capire da dove è arrivato il raggio gamma iniziale e che energia aveva. Ho usato i dati finali dei due telescopi Čerenkov MAGIC (https://magic.mpp.mpg.de/) per determinare il flusso di energia di questa lontana galassia. I telescopi sono sulle isole Canarie a più di 2000 metri di quota. Eccone una foto suggestiva:

Magic II

Ma non è ancora finita! C’è persino una parte poetica! Durante il loro tragitto fino alla Terra, i fotoni più energetici di una certa soglia, che di solito viaggiano indisturbati poiché sono molto penetranti, vengono assorbiti per la gran parte. Ciò avviene perché durante il percorso producono delle coppie di elettroni e positroni “scontrandosi” con delle altre particelle; queste ultime sono in realtà altri fotoni, per strano che possa sembrare (riuscite a figurarvi un raggio di luce che si scontra con un altro e casca per terra?). Questi secondi fotoni fanno parte di un fondo di luce che è diffuso in tutto l’Universo ed è composto, in ultima analisi, da tutta la luce emessa da tutte le stelle che sono esistite ed esistono in tutto l’Universo, fin da quando si sono formate. Immaginate questa luce, che da milioni di millenni viaggia e si espande nel vasto e splendente nulla: luce di stelle lontane, riflessa chissà quante volte su pianeti di tutti i tipi, come la luce del sole sulle onde del mare o sulle cime eterne delle montagne. Luce di cieli di tutti i colori, assorbita da vaste nubi e riemessa poi nel campo infrarosso.

Il tepore di questa luce è invero piuttosto gelido, visto che, contando anche il contributo (dominante) della radiazione di fondo di micro-onde, la sua temperatura è di circa 270 °C sotto zero. Pazienza, non si può aver tutto.

Tornando ai raggi gamma, che durante questa divagazione personale si sono un po’ annoiati, per riuscire a capire qual era il loro flusso in origine, cioè prima che venissero assorbiti dal fondo di luce extragalattica, si deve calcolare quanto questo fenomeno conti alle varie energie e cercare di estrapolare l’intensità iniziale.

La sorpresa è tutta qui: la sorgente che ho analizzato, PKS 1424+240, assieme ad un’altra simile, 1ES 0414+009, sembrano avere un emissione di energia che si mantiene piuttosto alta e non dà segno di calare anche per energie altissime (dell’ordine del TeV, per chi sa cosa significa), al contrario di quello che succede con altri oggetti simili. Questo può significare che sono particolari, come propongo nella conclusione della tesi, oppure che da qualche parte nel ragionamento c’è uno sbaglio: la radiazione gamma potrebbe interagire in modi che non conosciamo, oppure il fondo di luce extragalattica potrebbe avere (o avere avuto nel passato) proprietà diverse da quelle che si pensavano sin’ora. Solo portando avanti la ricerca si potrà scoprire quale possibilità è quella giusta.

Se volete altre informazioni, potete certamente leggere la tesi! La parte introduttiva sui concetti generali non è molto difficile. Se volete invece delle informazioni più dettagliate sui telescopi Čerenkov, il già citato sito di MAGIC ne è pieno. Naturalmente durante tutto il lavoro sono stato seguito da degli ottimi relatori: sono il prof. Mosè Mariotti, la dott.ssa Elisa Prandini e la dott.ssa Cornelia Schultz. Il loro contributo è stato più che essenziale per lo svolgimento del lavoro e debbo ringraziarli molto.

Dunque, dovrei pubblicare ancora un po’ di cose, ma sono in mezzo alla sessione d’esami. Dovrebbero arrivare presto alcune astrofotografie che ho scattato nei mesi scorsi (vi piacciono i nuovi colori dell’intestazione?). Spero di poterlo fare a breve!

PKS 1424+240 dal Monte Toraro

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